Paolo Rumiz sugli impianti sciistici

Centottanta impianti falliti al Nord: colpa della speculazione

Colate di cemento, terreni sbancati, piloni arrugginiti: la mappa dello scempio

Seggiovie e alberghi fantasma
così chiude la montagna

di PAOLO RUMIZ

VENTO che sibila nei corridoi di alberghi chiusi, gelidi come
l’Overlook Hotel del film Shining. Seggiolini sballottati dalla
tormenta, appesi a funi immobili. Stazioni di funivie piene di
immondizie, senz’anima viva intorno. Piloni arrugginiti, ruderi che
nessuno rimuove anche nei parchi naturali. Ora i numeri ci sono. Quelli
– mai fatti prima – degli impianti ridotti al fallimento dal
riscaldamento climatico e dalla speculazione immobiliare. Oltre
centottanta nel solo Nord Italia. La metà di quelli -350 – che sono
stati chiusi finora. Centottanta vuol dire quattromila tralicci,
centinaia di migliaia di metri cubi di cemento, seicentomila metri di
fune d’acciaio, cinque milioni di metri di sbancamenti e di foresta
pregiata trasformata in boscaglia. Ferri contorti come i ramponi di
Achab sulla gobba della balena. 

Per contarli abbiamo assemblato dati da parchi e corpi forestali,
attivisti di "Mountain Wilderness" e guide alpine, soci di Legambiente
e della "Cipra", il Centro per la tutela delle Alpi. Dati
impressionanti, che sembrano non insegnare nulla a chi in Italia – caso
unico in Europa – insiste a sovvenzionare impianti a bassa quota o,
peggio ancora, nei parchi nazionali, in barba ai vincoli comunitari.

Fotogrammi. Saint Grée di Viola, quota 1200, provincia di Cuneo, è un
monumento al disastro. Si chiamava Sangrato, ma non era abbastanza
trendy per un centro che doveva attirare sciatori da Piemonte e
Liguria, e così gli hanno cambiato il nome. Prima ha perso la neve, poi
i clienti, infine ha inghiottito soldi pubblici per un rilancio
impossibile. Oggi sembra Beirut dopo la guerra, cemento e vetri rotti
con la scritta "Vendesi".

Altri fotogrammi, nel dossier di Francesco Pastorelli, direttore di
Cipra Italia. Pian Gelassa in Val Susa: piloni nel vento, scheletri di
alberghi nati morti, lì da 30 anni in piena area protetta, a due passi
dalle piste olimpiche del Sestrière. Alpe Bianca, nelle Valli di Lanzo:
condomini vuoti, stazione della funivia con i cessi rotti e le
piastrelle smantellate. E così avanti: Oropa-Monte Mucrone, Albosaggia,
Chiesa Valmalenco.

Non è un viaggio: è un percorso di
guerra. A Oga presso Bormio la pista – iniziata e mai aperta causa lite
tra valligiani – sta franando, e la ferita è tale che la trovi anche
"navigando" con Google-Earth (e non è che gli squarci delle piste
"mondiali" siano meglio). In Valcanale, sopra Ardesio (Bergamo), un’ex
seggiovia è segnata da cemento sospeso sullo strapiombo e una discarica
nel parcheggio.

Sella Nevea nelle Alpi Giulie, orgoglio del turismo friulano: le
multiproprietà che negli anni Settanta hanno devastato la conca sotto
il Montasio sono così a pezzi che sono stati messi all’asta in questi
giorni. A Breuil-Cervinia residenze chiuse e impianti di risalita
dismessi, otto in tutto, di cui quattro funivie. Posti da dimenticare,
anche in anni di nevicate come questo.

Accanto agli scheletri, i morti viventi. Impianti in rosso, a quota
troppo bassa per garantire neve, tenuti in vita dalla mano pubblica.
Colere, Lizzola, Gromo nelle Orobiche. Oppure Tremalzo, La Polsa,
Folgaria e Passo Broccon tra Veneto e Trentino, che inghiottono milioni
in generose elargizioni per l’innevamento artificiale. Impianti a
rischio, che nessuno fa entrare nella contabilità di un disastro che è
anche finanziario. "Perché non si dice che le piste non si pagano solo
con lo skipass ma anche con le nostre tasse?", s’arrabbia l’esploratore
bergamasco Davide Sapienza.

Numeri insospettabili. Quaranta funivie e seggiovie abbandonate in
Piemonte, trentanove in Val d’Aosta (un’enormità per una regione di
centomila abitanti), almeno venti in Lombardia, trenta tra Emilia e
Liguria sul lato appenninico, trentacinque in Veneto e venticinque in
Friuli-Venezia Giulia. E non mettiamo in conto gli sfasciumi lasciati
dallo sci estivo, chiuso per fallimento in mezze Alpi.

Ma non c’è solo il clima nel crack. C’è anche la speculazione. La
seggiovia è solo lo specchietto per le allodole per sdoganare seconde
case e villini. "Meccanismo semplice", sottolinea Luigi Casanova di
Mountain Wilderness. "Si compra il terreno a basso costo, si cambia il
piano regolatore, poi si fa la seggiovia e si costruiscono case al
quintuplo del valore". Se il gioco è spinto, la seggiovia chiude appena
esaurita la sua funzione moltiplicatrice del valore immobiliare.

Uno crede: errori non ripetibili. Invece no: si continua sulla vecchia
strada, come per l’Alitalia. Miliioni di milioni di euro al vento. Come
quelli che serviranno per il collegamento – approvato il 31 dicembre
(!) dalla provincia di Trento – fra San Martino e Passo Rolle nel parco
di Paneveggio, dove Stradivari prese il legno dei suoi violini. O per
il terrificante "demanio sciabile" da 200 milioni di euro dalla Val
Seriana alla Valle di Scalve (Bergamo) pronto al varo nel parco delle
Orobie, contro cui s’è levata la protesta di molti "lumbard". Disastri
annunciati, come il maxi-progetto sul Catinaccio-Rosengarten, che
sfonda un’area che è patrimonio Unesco.

Cambiano i luoghi, ma il trucco è lo stesso. C’è un pool che compra
terreni, fonda una società e lancia un progetto sciistico, con un bel
nome inventato da una società d’immagine. L’idea è nobile: "rilanciare
zone depresse", così chi fa obiezioni è bollato come nemico del
progresso. A quel punto la mano pubblica entra nella gestione-impianti
e finisce per controllare se stessa. Così il gioco è fatto. Il sindaco
promette occupazione e viene rieletto: intanto parte l’assalto alla
montagna. Per indovinare il seguito basta leggere la storia dei ruderi
nel vento.

"Questi mostri di ferro e cemento che nessuno smantella rientrano in un
discorso più vasto" spiega il geografo Franco Michieli additando lo
stato pietoso dell’arredo urbano a Santa Caterina Valfurva, Sondrio.
"Il legame con la terra è saltato, i montanari ormai ignorano il
brutto. Piloni, immondizie, terrapieni, sbancamenti: tutto invisibile.
Si cerca di riprodurre il parco-giochi, e così si svende il valore più
grosso: l’incanto dei luoghi".

E intanto il conflitto tra ambiente e ski-business aumenta in modo
drammatico. Servono piste sempre più lisce e veloci, così si lavora a
colossali sbancamenti e si prosciugano interi fiumi per l’innevamento
artificiale. E c’è di peggio: la monocultura dello sci finisce per
"cannibalizzare" tutte le altre opzioni (albergo diffuso, mobilità
alternativa ecc.) perché distrugge i luoghi. Vedi Recoaro, dove le
gloriose terme sono in agonia, ma si finanzia un impianto a quota
mille, dove nevica un anno su cinque.

Per addolcire gli ambientalisti si inventano termini nuovi, come "neve
programmata" o "eco-neve", ma il risultato non cambia. Damiano Di
Simine, leader lombardo di Legambiente: "In Valcamonica un contributo
regionale di cinquanta milioni è stato utilizzato per costruire piste
nel parco dell’Adamello, e il risultato lo si vede su Google-Maps.
Squarci terrificanti". Stessa cosa sul Monte Canin nelle Giulie:
cicatrici da paura.

Ruggisce Fausto De Stefani, scalatore dei quattordici Ottomila e leader
carismatico di Mountain Wilderness: "Uno: tutti gli impianti sono in
passivo. Due: il clima è cambiato. Tre: gli italiani sono più poveri.
Basta o non basta a dire che un modello di sviluppo va ridisegnato? E
invece no, siamo furbi noi italiani. Continuiamo a vivere come
progresso un fallimento che ha i suoi monumenti arrugginiti in tutto il
Paese".

A Novezzina sulle pendici del Baldo – il colosso inzuccherato tra Val
d’Adige e Garda – De Stefani indica i resti di un impianto per neve
artificiale mai entrato in funzione. "È stato smantellato, ma la ferita
è rimasta, sembra una lebbra. Roba che per rimarginarsi impiegherà
secoli. Con i soldi di quell’impianto fallito si potevano ripristinare
malghe, sentieri, terreni; si valorizzavano i prodotti locali. È o non
è una truffa? Un’orda distrugge l’Italia e la gente tace, nessuno
s’indigna. È questo che mi fa uscir di testa". 

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