ANCORA SUL RAKET DEI VASCELLARI E ALTRO

Se il turismo divora se stesso

I due mega progetti turistici della Marmolada e di Sappada hanno
riaperto la discussione sul tipo di sviluppo turistico possibile nelle
Dolomiti e nelle Alpi più in generale.A Malga Ciapela il progetto
prevede una struttura alberghiera da 200 camere e 50 chalet, parcheggi,
centro wellness e centro congressi. A Sappada il progetto è analogo
(albergo da 180 camere). Il modello di turismo proposto si concentra
dunque su una struttura fortemente centralizzata, direttamente connessa
alle piste da sci e alle escursioni estive sul ghiacciaio (lo sci
estivo, almeno per ora, è bloccato).  

Per molti motivi il turismo in
tutte le Alpi sta attraversando un momento di crisi, dovuta al forte
indebitamento delle strutture di piccole e medie dimensioni, la
restrizione del credito (tra l’altro sottratta alla discrezione delle
banche locali e centralizzata in uffici esterni alle aree interessate
dall’investimento), la proliferazione delle seconde case, la tendenza
all’innalzamento di quota delle nevicate (un anno o due di neve non
cambia la situazione), la richiesta turistica (più mordi-e-fuggi, più
Disneyland), il confronto con il mercato globalizzato, ed altro ancora.
 

 

Gli Usa anticipano. Si tratta di una crisi che colpisce non solo le
Alpi, ma la montagna in generale. Negli Stati Uniti, per esempio, dove
dominano le leggi del mercato e lo Stato non interviene, dal 1985 il
numero dei bacini sciabili è diminuito del 22 per cento (sono ora 800),
e solo quattro grandi imprese controllano il mercato. Il modello, qui,
è quello di «progetti integrati», che prevede un operatore unico: il
settore immobiliare produce un terzo dei ricavi, la commercializzazione
del prodotto è centralizzata, i servizi sono forniti in cooperazione
con altre imprese ma con una posizione dominante dell’operatore unico.
E’ ipotizzabile che questo modello di ristrutturazione del mercato
arriverà con più forza anche in Italia (e in Europa), dove però dovrà
adattarsi alle diverse situazioni già in atto (differenti da zona a
zona, e da Stato a Stato, anche nelle Alpi), alle diverse normative
(anche urbanistiche), alle diverse tipologie di insediamento e di
sviluppo turistico.  

La montagna, un pretesto. Tuttavia il modello
dell’«operatore unico» e della grande struttura turistica è già
fortemente presente. Basti pensare a investimenti importanti, anche nel
Trentino, di operatori che individuano la fonte del profitto meno
nell’ambiente e più nei servizi forniti, meno nella pratica dello sci
(che diventa non più il motivo, ma solo uno dei tanti motivi di
attrazione) e più nella ristorazione, nelle attività commerciali
connesse, nelle strutture di wellness e di divertimento. Attività che,
in fondo, sono ubiquitarie, cioè potrebbero benissimo insediarsi in
altri territori: la montagna diventa soltanto un pretesto. Le Dolomiti
sono una semplice variabile, un optional
: a Dubai hanno costruito
perfino una grande pista da sci con impianti di risalita, sotto una
cupola a temperatura costante.  

A quale tipo di modello si ispirano i
due mega progetti di Malga Ciapela e di Sappada? La risposta non è
semplice, ma è possibile assimilarli a quella che Werner Bätzing nella
sua «bibbia delle Alpi» («Le Alpi», 1991 e 2003, edizione italiana di
Bollati Boringhieri 2005) chiama il modello «postfordista»: dal 1985
«non si costruisce nessuna nuova stazione, ma complessi complementari
in stazioni già esistenti di dimensioni relativamente piccole».
Tuttavia non pare una definizione sufficiente, perché questo modello
prevede che, pur costruendo interamente ex-novo «in base a criteri
funzionalistici», i complessi si ispirino a un altro «modello, del
tutto nuovo: viene creato un villaggio idilliaco, con la piazza del
mercato, piccole case, pergolati, in generale con l’impiego di molto
legno; il tutto dovrebbe dare un’impressione di storicità, ma con una
struttura architettonica molto più efficiente di quella che potrebbe
avere un vero villaggio storico». Dunque: «patina di storicità e
tradizione simulata».  Come si vede, siamo in piena «ridefinizione»
della cultura della montagna e perfino dei suoi miti. Quindi del suo
immaginario. Qualcosa di folcloristico, dove il folclore non è più
funzionale alla vita delle comunità di montagna, ma immaginario
cittadino sulla montagna: è ciò che si presume che gli abitanti delle
aree metropolitane cerchino in montagna. Per dirla con Annibale Salsa
(«Il tramonto delle identità tradizionali», Priuli&Verlucca 2007):
«L’industria turistica, in particolare, si avvale dello strumento
mass-mediologico per veicolare l’immagine di una realtà alpina
riconducibile ad un grande Disneyland».  

Il neoruralismo. «La nuova
ruralità postmoderna non ha nulla a che vedere con la ruralità reale»,
scrive Bätzing. Ovviamente non ha nulla a che vedere nemmeno con il
neo-ruralismo, cioè con la tendenza al ritorno alla montagna di chi
sceglie di viverci (e lavorarci) per sottrarsi ai modelli, anche
esistenziali ed estetici, della pianura.  I due nuovi progetti sulle
Dolomiti sembrano piuttosto aderire a soluzioni imprenditoriali ancor
precedenti, e non sempre vincenti sul piano imprenditoriale ma
certamente responsabili di modificazioni negative del paesaggio e
dell’ambiente montano. Cioè al modello francese in parte ancora
«fordista». Si tratta di stazioni integrate, ad altitudini elevate e in
luoghi non ancora toccati dal cemento. Qui l’ente pubblico individua il
sito, lo urbanizza e lo lottizza. Tutto è costruito e poi gestito da
una sola impresa, con capitali esterni all’area (e destinati a
ritornare all’esterno). E tutto alla fine è caratterizzato da bassi
costi e da prodotti standardizzati e in grande quantità. Ma in altri
casi il panorama è dominato da complessi immobiliari di grandi
dimensioni, vere e proprie cattedrali turistiche di alta montagna. Il
modello di sviluppo turistico delle Alpi francesi si distanzia dunque
dagli altri (quello svizzero, austriaco o anche italiano, con alcune
eccezioni).  

Divorzio dalla natura. L’evoluzione del turismo alpino
negli ultimi dieci anni ha comunque un minimo comune denominatore: la
tendenza a separarsi dalla natura e dall’ambiente che non sono più
elementi strutturalmente legati al successo di una iniziativa
imprenditoriale né, tanto meno, al rafforzamento di una cultura del
territorio. Se gli stessi abitanti se ne andassero, non sarebbe un
problema, tutt’altro: basterebbero quei pochi (magari extra-comunitari)
necessari ai servizi o per fare le comparse nelle (finte) feste
folcloristiche.  

Europa, quattro modelli. Anche a causa
dell’affievolirsi dell’attenzione dell’opinione pubblica sui temi
ambientali, l’uso del territorio sta attraversando una nuova fase di
«rivincita». Negli ultimi anni si sono contati circa 70 grandi progetti
in tutto l’arco alpino (non solo alberghi ma anche impianti sciistici e
funivie direttissime per le cime).  Bätzing ha classificato quattro
diversi modelli di sviluppo.  Delle Alpi francesi s’è detto.  Il
modello delle Alpi bavaresi, austriache occidentali e sudtirolesi è
caratterizzato storicamente da uno sviluppo turistico diffuso sul
territorio, basato su «piccole aziende, un’elevata percentuale di
operatori del ramo extralberghiero, uno sviluppo relativamente scarso
di strutture imprenditoriali legate alle seconde case (grandi complessi
edilizi di proprietà di società di capitali)», forte componente
endogena.  Le Alpi svizzere sono caratterizzate (dopo il declino degli
alberghi della Belle Epoque) dalla proprietà condominiale in grandi
edifici multipiano, grandi complessi immobiliari, grandi banche e
assicurazioni extralpine, forte influenza esogena.  Nelle Alpi italiane
(senza l’Alto Adige), cioè Dolomiti, Val d’Aosta, Val di Susa, Sondrio
(Livigno), il modello è caratterizzato dalla presenza del capitale
delle città (dunque «connotazione esogena»), con la presenza di un più
forte settore immobiliare rivolto non all’attività turistica ma alla
vendita di appartamenti; «anche qui», nota Bätzing, «si assiste alla
divaricazione della struttura turistica: da una parte le grandi
località turistiche, in cui i grandi investitori extralpini hanno
costruito enormi complessi di seconde case, dall’altra la tradizionale
offerta ricettiva, diffusa sul territorio, della popolazione locale».  

Quale futuro. Il problema di fondo, per il futuro, riguarda la (ormai
scarsa) capacità di tenuta di un modello turistico fondato sulla
molteplicità di piccole imprese, ma nello stesso tempo riguarda la
capacità del territorio di resistere alla distruzione della fonte
primaria e non riproducibile del turismo stesso (l’ambiente e la
montagna). Grandi complessi turistici rischiano di compromettere in
modo definitivo il futuro stesso di questa importante risorsa, ma è
altrettanto certo che il turismo va riorganizzato. Ciò non potrà però
avvenire senza ricomporre la frattura micidiale tra l’uomo e il suo
territorio, e dunque solo attorno a nuovi valori che non siano quelli
«indotti» dalle aree metropolitane (montagna come parco giochi, svago,
divertimento, tempo libero). Recuperando, allora, la centralità del
territorio, dunque la sua autonomia culturale, politica,
amministrativa
. Una carta da giocare, e che la montagna può offrire più
di altri territori maggiormente «inquinati». E non solo fisicamente.

Toni Sirena

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