Pubblichiamo un estratto da "La città totalitaria, ed. nautilus, perchè riteniano interessante l’analisi sul mondo in cui viviamo e le indicazioni per combatterlo e cambiarlo, unite alla critica di quei percorsi che anzichè toccare i tasti cruciali, le contraddizioni più pesanti e nocive (come la delega, la rappresentanza, la mancanza di autonomia delle persone), cercano di migliorarne l’aspetto, rendendolo più accettabile, istituzionalizzando un dialogo con i responsabili della distruzione. Senza intaccarne la sostanza. Speriamo che questo testo possa servire ad affinare gli strumenti per lotte realmente efficaci.
Buona lettura.
URBANIZZAZIONE E DIFESA
DEL TERRITORIO
Critica a un certo
ecologismo
di Miguel Amoròs
«Dite quel che volete –
chiamatelo sciocco, puerile, qualunque cosa; ma non vi dà il vomito il modo in
cui stanno conciando
l’Inghilterra con le
loro vasche per uccelli e i nanetti di gesso colorati e le fate e le lattine
arrugginite, là dove prima c’erano degli
splendidi boschi di
faggi? […] E volere una boccata d’aria!
Non ce n’è, di aria.»
George Orwell, Una boccata d’aria
Qualsiasi società, nella
misura in cui si fonda su un habitat, consiste in un’appropriazione del
territorio. Quest’ultimo, nel corso degli anni, viene lentamente modificato
dall’attività umana e, a sua volta, per le sue peculiarità geografiche, determina
tale attività. Non occorre sottolineare il ruolo svolto dai luoghi nella
formazione delle società per affermare che la Storia e la Geografia – o la
Società e la Natura – si sono condizionate a vicenda. La rivoluzione
industriale ha profondamente mutato questa reciprocità, liberando la società
dai condizionamenti territoriali, ma a un prezzo molto alto. Da un lato, la
gestione del territorio, grazie all’urbanesimo, si è trasformata in uno
strumento di accumulazione di capitale; dall’altro, la presa di possesso del
territorio da parte del capitale, cioè la sua trasformazione in merce, ne ha
provocato la distruzione. Basta pensare, per esempio, allo stato deplorevole
delle zone industriali o minerarie dismesse. Sotto il dominio del capitale, la
liberazione della società dalle costrizioni imposte dalla natura è stata
terroristica. Il processo tuttavia non si è svolto simultaneamente in tutte le
direzioni. Nei primi tempi, lo spazio del capitale era fondamentalmente il
territorio urbano. Le persone che vivevano in campagna effettuavano solo
occasionalmente scambi in denaro, e restavano in gran parte fuori dalle leggi
dell’economia. Nell’arco di un periodo relativamente breve della storia la
situazione è però mutata, al punto che oggigiorno tutto il territorio subisce
gli effetti della mondializzazione dell’economia e, di conseguenza, tutto il
territorio è realmente o potenzialmente urbano. L’Europa si è trasformata in un
reticolo di macchie metropolitane in espansione, che tendono a formare una
megalopoli continentale diffusa. In queste condizioni, l’appropriazione sociale
del territorio è inseparabile dalla sua degradazione e dalla sua distruzione.
La fine dell’agricoltura
tradizionale, ultimo baluardo contro la decomposizione territoriale, ha
significato la costituzione di un mercato globale del territorio. Strappato
alla sua esistenza quasi extraeconomica – si pensi all’acqua e all’aria – il
territorio sarà “classificato” e consegnato al mercato. La motorizzazione della
popolazione e l’apertura di nuove strade hanno fatto sì che le città perdessero
i loro limiti e le seconde o terze residenze, riflesso della prosperità di
alcuni settori, subentrassero alle attività rurali. In tal modo sono iniziati a
cadere tutti gli ostacoli fisici, linguistici, culturali, psicologici, morali,
eccetera, che definivano l’identità territoriale, con il risultato della
scomparsa del luogo, della morte del suo carattere e della sua singolarità. In
uno spazio integrato, il territorio non urbano è una riserva “non programmata”
di quello urbano oppure una sua propaggine naturalistica. Ciò ha comportato
un’alterazione delle forme di vita, una trivializzazione dei luoghi e delle
persone e minacce alla sicurezza o alla salute tali da rendere inevitabili le
critiche nei confronti dei responsabili. La volontà di resistere alla
banalizzazione generalizzata (alla proletarizzazione dell’habitat) e alle sue
conseguenze nocive soggiace a ogni contesa territoriale, ciononostante questa
volontà non arriva quasi mai a esprimersi con chiarezza, essendo mediata dagli
interessi creati nelle prime fasi del conflitto, nel passaggio da un’economia
agricola a un’economia di servizi. Questi interessi parziali ridefiniscono
un’“identità locale” che cerca di presentarsi come autentica, sotto la quale si
nasconde un gruppo sociale concreto. Infatti, la trasformazione economica
avvenuta nelle campagne, oltre alla scomparsa dell’agricoltura contadina in
senso stretto, ha comportato la comparsa di una classe media neorurale
formatasi in seguito alla compravendita di terreni e all’economia generata
dagli abitanti delle urbanizzazioni residenziali (i “villeggianti della
domenica”). Non si tratta di contadini di nuovo conio, non ha tanto a che
vedere con il sindacalismo agrario, riguarda piuttosto la politica locale. Composta
sia da piccoli produttori sia da funzionari, studenti, commercianti o
lavoratori autonomi, questa nuova classe è cosciente della propria origine, la
terziarizzazione dell’economia, motivo per cui non mette in discussione il
processo che l’ha fatta nascere, ma – questo sì – ne mette in discussione gli
eccessi. Non desidera tornare indietro, a situazioni meno rovinose. La
distruzione attuale va bene, quella futura proprio no: sì alle costruzioni, no
alla loro proliferazione oltre un certo limite, e così via. La dinamica
uniformante e distruttrice dei processi urbanistici mette in pericolo la sua
prosperità e la spinge all’azione, veicolata da un certo tipo di
organizzazione, la cosiddetta “piattaforma civica”.
In generale le
piattaforme considerano il territorio in termini di natura, non come luogo in
cui vivono delle persone. Per questo ritengono importante conservare il
paesaggio quale elemento chiave dell’identità collettiva, anziché ricreare le
assemblee comunali e le forme di cooperazione non capitalistiche, vera base
dell’identità perduta. L’identità sembra non essere un fatto storico, ma un
evento atemporale ed eterno. Gli spazi naturali costituiscono la base su cui
fondare una sorta di denominazione di origine, sicché il territorio può sostenere
qualsiasi attività economica estranea, purché sia pianificata e diversificata
da un consiglio consultivo, tutelata da leggi protezionistiche e finanziata da
imposte “verdi”. Le inadempienze dovrebbero essere perseguite da una
magistratura apposita e punite da un tribunale ambientalista. Secondo tale
programma, non sembrano esistere conflitti territoriali, soltanto alterazioni
di scarsa importanza del buon funzionamento dell’economia che si possono
correggere con una burocrazia giuridico-politica; più nel concreto, con la
presenza delle piattaforme nei centri decisionali. Queste ultime non chiedono
dunque la fine delle decisioni adottate all’esterno dall’amministrazione e
dalle imprese, tanto meno la deliberazione in assemblee municipali, bensì la
partecipazione dei cittadini all’adozione di decisioni che riguardano il
territorio quale elemento chiave di un modello realmente democratico. Questa
democratizzazione “completa”, definita nelle Agende 211, oltre a
inibire la possibilità di espressione diretta, legittima la distruzione del
territorio, evitando che la questione sociale venga sollevata all’interno del
conflitto e impedendo così la formulazione di una strategia di difesa. Le
piattaforme non aspirano a svolgere una mediazione all’interno del conflitto
territoriale, bensì a sublimarlo. E poiché intendono evitare ogni scontro
diretto, non promuovono l’autorganizzazione delle persone coinvolte, che
equivarrebbe a fomentare la rivolta territoriale, ma mirano a
istituzionalizzare un dialogo con i responsabili della distruzione. Si
tratterebbe quindi di negoziare i livelli di degrado “razionalizzando”
l’offerta territoriale; in sintesi, di omologare la distruzione, determinarne
il grado e garantire il controllo. Ritoccarne la forma, rispettarne la sostanza.
Gli stessi responsabili del potere dominante devono rimediare alle conseguenze
del loro sviluppo urbanizzatore con palliativi concordati con i dirigenti delle
piattaforme, per esempio le riserve naturali, l’agriturismo, le verifiche e le
moratorie urbanistiche, le sovvenzioni agricole, gli impianti di riciclaggio,
la revisione dei piani regolatori, eccetera, ma senza affrontare la cause
reali, a cominciare dal già citato sviluppo, né attaccare i veri responsabili,
i promotori, le agenzie immobiliari, l’amministrazione, gli operatori turistici
e coloro che si comprano le città. La difesa del territorio si riduce a
simulacro grazie alla scomparsa dei nemici, meri simboli astratti (per esempio
l’inquinamento, la speculazione, la mancanza di senso civico), e grazie alla
dissoluzione dello scontro, sostituito da gesti simbolici ed eventi
spettacolarizzati (pranzi, clacsonate, raccolte di firme, eccetera). L’azione
delle piattaforme assomiglia più a una campagna pubblicitaria, mediatica, che a
una lotta effettiva. Questo modo di agire trasforma le persone coinvolte in
spettatori della loro stessa causa, il cui controllo è nelle mani di portavoce
o di sindaci, nelle gabbie associative o in quelle politiche. I loro interessi
reali, essenzialmente antieconomici, non riescono a essere formulati. Sin
dall’inizio l’opinione delle piattaforme accetta la mercificazione del
territorio, ma esige una gestione più efficace a lungo termine (un nuovo
modello di crescita, di mobilità, di urbanesimo, eccetera) e un reinvestimento di
parte dei benefici prodotti, per così dire, un riciclaggio delle plusvalenze.
La “nuova cultura del territorio”, o nuova maniera di uso e consumo del
territorio, slogan presente tanto nella bocca degli ecologisti quanto in quella
degli amministratori, si limita a proclamare che nella nuova economia globale
l’impatto ambientale deve essere incluso nel prezzo.
Il fatto che politici e
imprenditori usino un simile linguaggio indica che il potere economico è
disposto a guidare la difesa del territorio, cioè a controllarne la
distruzione, dal momento che la sua conservazione paesaggistica è ora tanto
redditizia quanto lo fu un tempo la sua devastazione. Non è un caso che i
maggiori investimenti, dopo quelli dell’alta velocità, siano destinati
all’energia eolica. Il potere cresce con le crisi. Se la distruzione del
territorio mediante l’urbanizzazione è la principale risorsa per la formazione
del capitale, comincia a esserlo anche la sua ricostruzione sotto forma di
giardino. Potere e piattaforme condividono uno spazio comune. Per questo alcune
piattaforme, che lavorano a favore di una nuova cultura dell’energia, hanno
chiesto ai vari responsabili dei dicasteri dell’Ambiente e dell’Industria la
possibilità di collaborare, nell’ambito di una commissione mista, tra imprese,
comuni e amministrazioni autonome regionali al fine di razionalizzare l’offerta
energetica. Le piattaforme ecologiste implorano un dialogo con il potere nel
momento in cui esso diventa ecologista; è giocoforza incontrarle prima nelle
consulte, poi nell’amministrazione (per esempio nei ministeri dell’Ambiente) e
infine nei servizi di consulenza privati e nei consigli aziendali. La
distruzione però non si arresta, soltanto che adesso è definita “sostenibile”
e, nella misura in cui i rappresentanti delle piattaforme la controllano,
diventa “gestione democratica”. È la “nuova cultura del territorio”. Le
piattaforme si interessano alla democrazia quando è solo più un’illusione.
Perché, se il regime politico attuale delle società in cui regna lo spettacolo
merita un aggettivo, tale aggettivo è “fascista”. Non viviamo in una società di
cittadini, ma in una società di massa, nella quale gli impulsi consumistici e
l’assistenza tecnologica svolgono il ruolo di controllo e di mobilitazione un
tempo appannaggio dello Stato totalitario e del partito unico. Questa nuova
forma di fascismo non è sostenuta da un espansionismo bellico al servizio di
uno Stato qualsiasi, ma da un espansionismo economico in guerra con il
territorio e con i suoi abitanti, vigilato da uno Stato di polizia. In queste
circostanze, la formulazione di un interesse pubblico da parte di enti statali
è pura menzogna. Sotto il fascismo, tutti i partiti sono elementi di un unico
partito, quello dell’ordine. E tutti i politici difendono il predominio degli
interessi privati sull’interesse pubblico o, in altre parole, l’economia di
mercato. Di conseguenza né la politica né l’amministrazione possono essere
neutrali e mediare tra tali interessi. Entrambe fanno parte della classe
dirigente. Entrambe sono abituate a finanziarsi con la riqualificazione del
suolo. Il capitalismo globalizzatore si basa sulla gestione, non sulla
proprietà, proprio come i partiti, così quando ci fermiamo di fronte alla
politica o di fronte all’amministrazione, ci fermiamo di fronte alle imprese.
Basta chiedere ai lavoratori del verde pubblico di Barcellona, dato che il
comune intende privatizzare il servizio municipale dal quale dipendono. Di
fronte a una realtà siffatta, gli abitanti non sono padroni del loro territorio
né delle loro città: sono clienti di chi li gestisce. Clienti senza possibilità
di scelta, con un solo piatto nel menù.
L’amministrazione non è
parte della soluzione, ma parte del problema. Nella maggioranza dei casi è
nelle mani della destra o della sinistra politica, ed è la principale
sostenitrice delle aggressioni al territorio, che si tratti di gallerie,
tracciati per l’alta velocità, piste da sci o megaporti. Una difesa del
territorio – una difesa dei suoi abitanti – deve avere ben chiaro che
l’amministrazione è il nemico, e deve rinunciare a qualsiasi tentazione
politica. Le tematiche che un movimento in difesa del territorio deve
affrontare, come la riappropriazione del potere decisionale da parte degli
abitanti e il loro diritto di essere gli unici a decidere sul proprio habitat,
sono apertamente antipolitiche. Il blocco di tutti i piani regolatori urbani,
la declassificazione del suolo edificabile o i progetti di deurbanizzazione,
comprese le demolizioni, sono in aperta contraddizione con i principi sui quali
si fonda la politica, e per perseguire tali obiettivi con efficacia il più
delle volte sarà necessario tenersi alla larga dalle normative e dalle
istituzioni. I partiti e le istituzioni amministrative non possono
rappresentare l’interesse pubblico perché fanno parte del sistema, perché
rappresentano essi stessi interessi privati e perché sono strumenti avversi
alla formazione di meccanismi di decisione collettivi e alla mobilitazione.
Tengono il coltello dalla parte del manico. Con loro non si potranno mai
adottare le misure necessarie per ridurre drasticamente la mobilità della
popolazione o farla finita con lo spreco di acqua e di energia. Tanto meno si
potrà recuperare il mondo rurale e porre un limite all’espansione delle città.
Gli odierni movimenti in difesa del territorio, contaminati fino al midollo da
spore politiche e cittadiniste, non hanno un grande futuro. Se tali spore
germinano e si diffondono, la difesa del territorio si trasformerà in un
fattore subalterno della sua distruzione più o meno indirizzata. Se tali
movimenti riescono invece a scrollarsi di dosso i fallimenti, se si trasformano
in poli di aggregazione e giungono a definire un interesse generale basato
sulle misure summenzionate, essi potranno essere un fattore determinante di cambiamenti
rivoluzionari. Devono imparare dalle sconfitte del movimento operaio e non
cadere nella trappola della gestione locale, né nel sindacalismo territoriale.
Non devono mai affidare la loro volontà a rappresentanti non eletti e non
revocabili, né permettere la specializzazione politica: devono escludere i
dirigenti. In questo consiste l’autorganizzazione. La difesa deve dare pieno
risalto alla lotta per il territorio, dare espressione agli antagonismi,
indicare con nome e cognome gli avversari, ampliare i punti di rottura. Non
cedere alle prevaricazioni né alla seduzione. Il suo obiettivo irrinunciabile
deve essere la liberazione del territorio dagli imperativi del mercato, e ciò
significa farla finita con il territorio inteso come territorio dell’economia.
Deve stabilire un rapporto di rispetto tra l’uomo e la natura, senza
intermediari. In definitiva si tratta di ricostruire il territorio, non di
amministrarne la distruzione. Questo compito spetta a coloro che nel territorio
vivono, non a coloro che ci investono, e l’unico ambito in cui ciò è possibile
è quello offerto dall’autogestione territoriale generalizzata, cioè la gestione
del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie.
NOTE
1 Agenda 21 è un programma delle Nazioni Unite dedicato allo sviluppo
sostenibile e consiste nella pianificazione completa delle azioni da
intraprendere a livello mondiale, nazionale e locale in ogni ambito in cui la
presenza umana ha un impatto sull’ambiente. Le Agende 21 sono piani d’azione
per lo sviluppo sostenibile da realizzare a livello locale.
Testo estratto da La città totalitaria, edizioni Nautilus, Torino,
pp. 54, 3 euro, libretto di cui consigliamo vivamente la lettura. Per
richiederne copia scrivete a: noinceneritorenotav@gmail.com
Complimenti per la selezione! Mi vien tristezza pensare a quanto poco contiamo sui vari PAT e PGT comunali… e quanto questa gestione “burocratica” del territorio in cui viviamo arrivi a influenzare la qualità della nostra vita. Ancora complimenti per il blog, lo seguo da qualche mese e qualche tempo fa vi avevo inviato del materiale sul progetto di informazione libera di cui faccio parte: net1news. Vi è arrivata la mail? Che ne pensate?
tommaso